“La cosa più difficile da vedere è quello che c'è davvero.”
- J.A. Baker.
Questo cammino inizia dalla terra. La stessa terra che hanno in tasca i migranti, una manciata di sabbia proveniente dal giardino di casa.
Non è una coincidenza che il giorno del nostro arrivo in Sicilia siamo stati portati a vedere “Corpi migranti”, una mostra fotografica di Max Hirzel organizzata dal centro Muni Gyana e supportata dall’associazione Magweb (Epifania Lo Presti e Fabrizio Cacciatore, membri dell’associazione, ci hanno ospitati per tre giorni, i primi del nostro viaggio).
Gli scatti mostravano le tombe senza nome dei migranti naufragati al largo della Libia e i pochi resti recuperati dai naufragi. Una manciata di oggetti sdruciti è tutto ciò che rimane di coloro che si sono imbarcati per un viaggio senza ritorno.
Dove i loro volti si vedono, ricordano storie finite prima del tempo, come quelle di soldati al fronte, stelle cadenti ormai bruciate e scomparse nel buio.
Tra i reperti ci sono una rosa di plastica (forse un augurio di buon viaggio?), la fotografia di un ragazzo impressa sulla plastica trasparente che conteneva un documento (non reperito), un paio di bustine piene di terra. La didascalia di quest’ultima dice: “tra i reperti recuperati dal barcone naufragato, i sacchettini contenenti la terra di casa di due vittime”.
Quante storie, ci è capitato di pensare, stanno dietro a un sacchetto di terra di casa nella tasca di un migrante? Avevamo letto e guardato tante cose sugli sbarchi degli ultimi anni, ma nulla ci aveva colpito così tanto come questi scatti. D’un tratto, era come se avessimo visto il problema da vicino.
“Non potrebbero starsene a casa?”, abbiamo sentito dire una volta.
La cosa più difficile da vedere è quello che c'è davvero. E finché non lo vedi da vicino non lo vedi veramente.
La loro grande tragedia non è tanto l’aver vissuto una disgrazia, ma non poter essere capiti. Molte di loro sono persone che a casa sarebbero rimaste volentieri, tanto da portarne un pezzo con sé.
Quante storie ci sono dentro un sacchetto pieno di terra? Ma da dove verrà? Una secca distesa del deserto del Sahel o un umido orto delle periferie di Sokoto?
Più che un luogo preciso ricorda odori e suoni. Per quanto non abbiamo mai visto corpi migranti, né conosciuto migranti, i sacchetti di terra portano alla mente un profumo di un’aria terrosa che soffia attraverso gli alberi, di cibi che bollono in pentola.
E il suono del latrato di un cane, la stessa porta che cigola, il rumore dalla strada, la voce di una madre. I suoni familiari di una casa qualsiasi, una delle cose che ci rende simili da un lato all’altro del pianeta.
Solo un sacchetto di terra per ricordarsi chi sono, chi erano, chi volevano diventare. Se solo potessero portarsi tutti quei suoni e profumi con loro. Muoversi verso lo sconosciuto, pur toccando il terreno di casa.
Il cammino di questi uomini e donne cominciava dal suolo su cui sono nati, proseguiva per un mare ostile e verso un altro continente, verso un sogno di libertà, verso il futuro.
I sacchetti pieni di terra ci mostrano che questa è molto di più di qualcosa su cui mettiamo i piedi.
Siamo corpi migranti che cercano questo. Siamo mossi dalla ricerca della libertà. Ci spostiamo perché ci piace il nuovo, ma rimaniamo uniti dalla necessità di dare un senso a questo viaggio, ricordandoci sempre da dove siamo venuti.
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